30 dicembre 2006

La morte verrà all'improvviso


Ci sono pochi argomenti che hanno attraversato qualsiasi forma di espressione artistica fin dalle epoche preistoriche e uno di questi è sicuramente la morte: dalle rappresentazioni pittoriche all'interno delle piramidi o delle necropoli in genere alle lamentazioni funebri, tra i primi esempi di lirica corale nella grecia antica, dallo sviluppo di tutta l'arte cristiana (che tra santi, martiri e cristi, di morti ne ha viste non poche) ai kaddish, non ultimo quello pubblicato negli anni '50 da allen ginsberg.
E di morte parlano anche, come suggerisce il nome stesso, le murder ballads, ballate (e quindi liriche o canzoni) dove si narra di omicidi, spesso intrecciati a sentimenti di amore di varia natura (erotico, filiale...). Molte delle murder ballads più famose fanno parte del corpus di ballate anglo-scozzesi raccolte da Francis James Child le quali, giunte in territorio americano con i pellegrini, dopo vari mutamenti sia linguistici che narrativi, ne vennero a costituire un importante patrimonio musicale (sentito a tal punto proprio dalla tradizione folk statunitense che, per dirne una, joan baez a questo repertorio ha dedicato due dischi).
Tra l'altro, Lord Randall, una delle murder ballads più famose del corpus childiano, ha un incipit che a più di uno dovrebbe ricordare qualcosa:
Where did you go, Lord Randall my son?
Where did you go, my beloved one?
E come non citare il meraviglioso concept album di Nick Cave, "murder ballads" appunto, che pescando tra musiche tradizionali e brani scritti per l'occasione, disegna con la sua bellissima voce dieci affreschi sospesi tra l'amore e la morte (solo per segnalarne una, consiglio di ascoltare il duetto con Kylie Minogue "where the wild roses grow").
Ma di murder ballads ne sono state scritte anche in italiano, da eri piccola così di fred buscaglione a lella di edoardo de angelis, fino ad arrivare all'ultimo disco dei Del Sangre, impreziosito, tra le altre cose, dalla bellissima Marcella, au revoir

MARCELLA, AU REVOIR (Del Sangre)

Non saranno i fiori che appassiscono
a parlarmi di com'eri tu
e una foto che imprigiona un attimo
a scaldarmi il cuore un po' di più
Io non ho mai più versato lacrime per te
devo dire però che eri bella marcella, au revoir

Non saranno i tuoi profumi ancora qui
e i tuoi finti quadri di van gogh
e le tue poesie a farmi commuovere
io non ti rimpiango neanche un po'
se all'inferno o in cielo un giorno tornerò da te
devo dire però che eri bella marcella, au revoir

Non saranno i dischi che ti regalai
a suonarti marce funebri
non sarà l'incenso che ti avvolgerà
a portare via i tuoi uomini
ho il riscosso il prezzo del tuo vivere più in là
devo dire però che eri bella marcella
devo dire però che eri bella marcella
devo dire però che eri bella marcella, au revoir.

21 dicembre 2006

Metafisica del confine


Difficilmente, se si volesse stilare una sorta di abecedario americano, la lettera B potrebbe essere occupata da un termine diverso da border. Il tema del confine è infatti uno dei protagonisti più presenti sia nell'immaginario che nell'universo lessicale statunitense, fin dal tempo della nascita della nazione. Veri o figurati che fossero, l'intero sviluppo della storia americana ha visto svolgersi una continua dialettica tra open range e fence, tra spazi aperti e steccati posti a difesa di quelli che andavano divenendo, di volta in volta, confini, appunto.
Confini più o meno immateriali, come quelli che per più secoli hanno proceduto lungo la linea del colore e confini più tangibili come il lungo muro che, dal Texas alla California, dovrebbe servire a tenere lontani i messicani e gli irregolari in genere. Persino la porta verso il regno dei cieli è vista come un confine da attraversare (d'altronde dio e gli ostacoli da superare costituiscono un'interessante semplificazione del calvinismo tramandato dai pellegrini) e gli stessi termini che si usano per l'uno vengono interamente assorbiti dall'altro (e qui mi verrebbe da citare la bellissima ride'em jewboy di kinky friedman, "ride along the old corral").
Ma il border non è una categoria neutra, sul confine si vince e si perde, si ama, si nasce e si può anche morire, magari d'inverno in mezzo alle nevi della california....

CALIFORNIA SNOW (Tom Russell)

I'm just tryin' to make a livin'
I'm an old man at thirty-nine
With two kids and an ex-wife
Who moved up to Riverside
I'm workin' down on the border
Drivin' back roads every night
Mountains east of El Cajon
North of the Tecate line.

Where the California summer sun
Will burn right through your soul
But in the winter you can freeze to death
In the California snow.

I catch the ones I'm able to
And watch the others slip away
I know some by their faces
And I even know some by name
I guess they think that we're all
Movie stars and millionaires
I guess that they still believe
That dreams come true up here.

But I guess the weather's warmer
down in Mexico
And no one ever tells them
‘bout the California snow.

Last winter I found a man and wife
Just about daybreak
Layin' in a frozen ditch
South of the interstate
I wrapped ‘em both in blankets
But she'd already died
The next day we sent him back alone
Across the borderline.

I don't know where they came from
Or where they planned to go
But we carried her all night long
Through the California snow.

Sometimes when I'm alone out here
I get to thinkin' about my life
Maybe I should go to Riverside
And try to fix things with my wife
Or maybe just get in my truck
And drive as far as I can go
Away from all the ghosts that haunt
The California snow.

Where the California summer sun
Can burn right to your soul
And in the winter you can freeze to death
in the California snow.

Tracce d'un'estate ungherese


Pochi tratti
sopra un foglio
bianco

Il mio volto
è diventato
questo
per te
ragazza
senza nome
incontrata
in un giorno
di silenzio

Pochi tratti
e tu mi hai
trasformato
in carta scritta
che si può
buttare

11 dicembre 2006

Dal Valdarno al West

Una cornice familiare e splendida come sempre, due amici cantautori, vino e tequila come se piovesse....una canzone su una terra vicina, che ha il sapore delle grandi ballate tex-mex del border americano.

SANTA BARBARA (Massimiliano Larocca)

E' l'ora dell'ultimo pasto
ma in strada qualcuno è rimasto
a prendere i gatti alla fune
a tirare sassi nel fiume.

Nessuno si fa più domande
nessuno azzarda risposte
mentre i mesi trascorrono lenti
a Santa Barbara.

Mio padre lavorava in miniera
dall'alba alle nove di sera
e portava a casa soltanto
due semi di zucca e tabacco.

Novanta piedi nel sottosuolo
novanta metri sul territorio
il sole non mostra i suoi denti
a Santa Barbara.

Il sole non mostra i suoi denti
a Santa Barbara,
la vita votata al lavoro
piegati alla legge dell'oro.

C'è un uomo stretto in un doppiopetto
che dorme ancora dentro il mio letto
ha preso i frutti delle mie mani
all'ombra di due grandi vulcani.

Il sole non mostra i suoi denti
a Santa Barbara,
la vita votata al lavoro
piegati alla legge dell'oro.

L'inverno del '57
le lampade si sono già spente
la valle ora ha un volto irreale
più simile a un paesaggio lunare.

Mio padre brandiva un piccone
io siedo sopra un braccio motore
scavando alla luce del giorno
a Santa Barbara.

06 dicembre 2006

I segni sulla pelle

Ho scritto queste poche righe durante le giornate del marzo parigino, con la dedica ad una cara amica, i cui frammenti di vita ho cercato di catturare, rubando parole ad un libro allora letto da poco.

Un libro. Uscito al momento giusto, ma letto solo adesso, dopo un numero di anni troppo breve per segnare una distanza, comunque serrata dalla continuità che caratterizza le nostre lotte. Un libro che sarebbe stato il regalo ideale per accompagnare una nuova partenza.

"Mi ero immaginata cento motivazioni, ma non che avessi paura di una storia d'amore. Non mi sembra molto rivoluzionario come comportamento, ma ognuno vive le proprie contraddizioni e quindi...."

Chissà se la ragazza pensava queste stesse parole vedendosi seduta accanto a quel filosofo forse ancora troppo ragazzo a dispetto degli anni che la sua faccia pubblica gli impongono di avere.... Chissà cosa si sarebbe vista rispondere ad una considerazione del genere?
Corre lento il pullman lungo le strade di una penisola che, ad attraversarla tutta ti sembra sempre non debba finire mai, tra i messaggi e le telefonate dei compagni ed il desiderio misto ad invidia di quelli che non hanno potuto esserci.
In ogni caso, senza sogni non si va da nessuna parte e si finisce per restarsene in casa con i propri mugugni. Loro a casa non ci sono rimasti, ed è per questo che possono desiderare anche l'impossibile.

Sì, quell'impossibile che, da bambini, avevano appreso dal giovane comandante argentino essere un portato dei sogni dei realisti, l'unica risposta possibile alle domande che la vita gli avrebbe posto giorno dopo giorno. Una continua appropriazione e riappropriazione, dei propri bisogni, di uno spazio che fosse espressione di desideri, di una piazza e di strade sottratte alla necessità ed ai ritmi del capitale per essere un luogo del tempo presente, il luogo del plurale collettivo. E allora anche il viaggio porta con sé una lentezza scandita dalle soste di un noi sempre più grande, talmente grande da potercisi accomodare anche in due.
Il problema è come ricominciare, con quali gesti, con quali parole. Fino ad un attimo prima erano due ex incontratisi per caso in mezzo a decine di migliaia di persone; adesso sono di nuovo due parti di un tutt'uno che guarda il mondo dalla stessa finestra e decide se spalancarla o chiuderla per sempre.

Gli occhi della ragazza hanno visto una città familiare infiammarsi e piangere, colorarsi e resistere; la voce del filosofo ha narrato ed analizzato, si è fatta memoria per chi stavolta non c'era e monito per chi non ci sarà mai.
è lunga la notte che li riporta a casa, ma si sa:
le strade, di notte, hanno bisogno di stelle.

30 novembre 2006

Eccedi Sottrai Crea

[...] in due. Poichè ciascuno di noi era parecchi,
si trattava già di molta gente.

[...] che ci porta sulle strade
della gente che sa amare.


Esc compie due anni.
E il due è un buon numero. Due è il numero della separazione. Due è il
numero della differenza. Due rende possibile l’autonomia. Almeno in due per
essere liberi.
E poi Due rompe la solitudine. Due è «il contrario di uno». Meno solitudine,
più potenza. Due è già cooperazione. In due è possibile un amore. Un amore,
il gioco si fa sovversivo.

Esc compie due anni.
Intanto c’è solitudine nell’aria. La Politica ci ha detto: “Bravi ragazzi,
siete stati bravi. Adesso a casa, filare, a casa, di nuovo soli, soli come
prima! Ci pensano i Grandi, ci pensa la Politica!”
Due, bisogna trovare il modo di essere ancora in due, meglio in tanti.
Perchè due è subito molti e i molti non sanno che farsene del ritornello
stonato e freddo della Politica.
Due può ancora giocare. Due non ha alcun interesse a diventare adulto. Nè
adulti, nè lavoro, semmai Reddito! Reddito per i molti, per l’intelligenza
che riguarda i molti quando agiscono di concerto. Almeno in due per essere
singolari. I molti sono sempre anche singoli.
La Politica ama SOLO chi rimane SOLO. Perchè chi rimane solo ha paura e chi
ha paura non smette mai di delegare, di andare al lavoro, di cadere in
depressione, di imbottirsi di prozac. Chi è solo non rompe i coglioni. Chi è
solo paga. Chi è solo consuma. Chi è solo sa cosa vuol dire autodistruzione.


Esc compie due anni.
È cambiata la fase, è cambiato il tempo. È arrivato il freddo, quello più
insopportabile, quello che si trova quando si torna a casa.
Ma Due non torna a casa. Una casa semmai serve «per andare in giro per il
mondo». Due e c’è ancora speranza. E in due è ancora possibile conoscere.
Due, il pensiero può ancora pensare.

Esc compie due anni.
Due è antagonismo. Il due rompe l’omogeneità del Sovrano. Due è il contrario
di Uno. Due è il contrario del Sovrano. Antagonismo è separazione,
separazione non è ghetto, separazione è COMUNE. Due è COMUNE.
COMUNE è amore per la ribellione. Due, almeno in due per ribellarsi. Due è
la lotta di classe.
Due è amore, amore è potenza, potenza è in molti, due e più di due,
sicuramente il contrario di uno.

Per chi è già parecchi
In molti,
venerdì 1 dicembre
Due anni di Esc,
con Renato e Antonio nel cuore,
con la Francia negli occhi,
con la gioia e le lacrime di chi
sa amare

..........

21 novembre 2006

Volver.....



Scena. Esterno, notte. Una notte che potrebbe essere tutte le notti come nessuna, un sogno macchiato di poche stelle e di un'esile lacrima di luna.
La ragazza cammina verso il suo futuro anteriore; in testa, più di un pensiero che scandisce il ritmo dei passi sul selciato. La ragazza ha fretta: il futuro ha il volto sfuggente di un uomo che invecchia presto e la ragazza lo sa. Incidentalmente, le tornano alla mente le parole di un vecchio tango argentino, il caleidoscopio di suoni e fruscii di un vecchio 33 giri ascoltato sul giradischi di famiglia e la voce di gardel che sussurrava:
"Sentir...
que es un soplo la vida,
que veinte años no es nada,
que febril la mirada,
errante en las sombras,
te busca y te nombra."
Il ricordo dura pochi passi, per poi lasciar spazio ad altri pensieri partoriti di fresco....que veinte años no es nada...si fa presto a dire che vent'anni non son nulla, se la misura del tempo non sono i singoli giorni, e questo la ragazza lo sa. Lei è di giorni che si nutre, anzi, di giornate, che riempie di tutto ciò che ella suole chiamare vita, senza tralasciare alcun aspetto.
Ma chi sa se la vita assomiglia

al fanciullo che corre lontano.....
La ragazza sa che la vita è una preda difficile da rincorrere e ogni tanto si ferma a cercare aiuto. Ogni sua sosta è il racconto di una necessità, il bisogno di essere se stessi fino in fondo, la sublimazione di una lotta che abbia come unico concorrente il dubbio.
Il dilemma era quello di sempre, un dilemma elementare,

se aveva o non aveva senso il loro amore.....
La ragazza ha due numeri di telefono ma un solo gettone.

20 novembre 2006

Addii


Ritorna
il riflesso
dell'assenza
nel vuoto
di un bicchiere
ormai
finito.

10 novembre 2006

Fermo immagine

"Il ’77 lo vedo con tante immagini, con tante facce, con tante espressioni di giovani, ragazzi e ragazze, che non esistono più. Io ho visto che le facce di quel periodo sono scomparse. Sono scomparse forse perché la faccia ognuno se la fa, con le domande che si pone, e quelle domande forse non esistono più almeno formulate in quel modo. E non esistono più le facce del 1977.
Nel caso del 1977 quelle facce sono comparse e scomparse tutte quante insieme.

...

Uno scrittore morto alcolizzato diceva che è impossibile vivere con una menzogna. Tutti noi sappiamo che è più difficile ancora vivere con certi ricordi. E allora capita che un intero paese rimuova anni della sua storia. Così è stato per il ’77. Lo leggevo negli occhi delle persone che in quel tempo avevano avuto amici, amori. E per continuare a vivere li avevano rimossi.

Mi sono sempre identificato con i rimossi. Ai giovani di oggi, che nelle sere d’estate cercano le storie proposte da ombre che si muovono, vorrei mostrare le ombre dei giovani di venti anni fa. Con le loro storie, distrutte per sempre".

Tano D'Amico

Passano i giorni, passano i mesi, i nostri sogni chi li avrà spesi


Ho scritto questa cosa un bel po' di tempo fa per un'amica, un tentativo di leggere i pensieri che ne popolavano la vita del momento. Nel ricopiarla qui, gliela dedico ancora una volta.

Mezzanotte di una notte come tante
passata avanti al solito bicchiere
20 anni e un'esistenza già pesante
da vivere finché c'è ancor da bere.

Mezzanotte di una notte già vissuta
stesse domande, sogni, sensazioni
una di quelle in cui nemmeno aiuta
portarti dietro 3 o 4 canzoni.

Mezzanotte di una notte senza amore
il letto vuoto, il cuore ancora pieno;
mentre ti scopri a inseguire un odore,
tua è la mano che ti accarezza il seno.

Mezzanotte di una notte silenziosa
solo una penna, un foglio e un'altra sigaretta
quand'è già tanto avere qualche cosa,
perché più niente in fondo ci si aspetta.

Spunta l'alba in una notte ormai finita
come quel vino in cui ormai senti di affogare,
mentre una voce dentro di te grida:
"Com'è che non riesci più a volare?".

02 novembre 2006

Tafelpoesie



versi scritti sulla tovaglia di carta di un locale in una sera d'autunno


Macchiato e logoro
come tovaglie

che hanno visto
troppi vini
cammino
solo
cercando sollievo
in albe
improbabili
senza treni
o stazioni.

Il bandone
dei giorni

è semichiuso
ancora
ma l'insegna
spenta
è ormai
da tempo.


Versa un ultimo

bicchiere
cameriera
dei ricordi
versane un altro

e fammi
compagnia.
Figlia del tempo
bevi e fammi
forza
soltanto un altro
poi
scapperò
via.

30 ottobre 2006

..Vuoi mettere risorgere, Paz!



"Mi sono mosso perché era inevitabile che lo facessi
Mi sono messo a disegnare perché era inevitabile che lo facessi

Mi sono messo a disegnare perché dovevo raccontare quello che vedevo...."
Andrea Pazienza

23 ottobre 2006

Il pellegrino


Bianco e nero, così come la bellissima foto di copertina. L'inquadratura si apre su una rivista di più di tren'anni prima, indugiando sulla fotografia di un giovane cantautore allora emergente. Stacco. Un uomo cammina in mezzo al deserto americano; incorniciata tra la sabbia e le montagne se ne distingue solo la sagoma, che avanza a passi calmi ma costanti. L'inquadratura si fa più vicina: l'uomo cammina lungo un binario - forse morto - e porta una chitarra su una spalla; c'è una galleria da attraversare e ancora l'immagine restituisce solo i contorni della figura, che per quanto sappiamo potrebbe essere uno dei tanti hobos che hanno ripercorso quei binari più e più volte. All'uscita della galleria, la luce svela i tratti dell'uomo: in apparenza è lo stesso di quella fotografia, solo che più vecchio, ma sarà poi davvero lui? cammina seguendo i binari, solo, lui e la sua chitarra, e si lascia dietro anche i treni che si son fermati in qualche stazione senza nome (eh sì, ne ha fatta di strada nel frattempo!). Di fronte a lui è di nuovo deserto, ma continua a camminare, perché la strada ha ancora arcobaleni da restituirgli: anche se la chitarra rimane ancora sulle spalle, l'uomo ha ancora voglia di suonare, e così accompagna i suoi passi verso il tramonto aiutandosi con un'armonica, mentre la sua ombra si allunga sul deserto.
L'uomo continua per la sua strada: sul volto un sorriso tra il consapevole ed il beffardo abbandona l'inquadratura, lasciando solo le ultime luci sul deserto a far da corollario alla sabbia. E' il vento ad avere l'ultima parola, chiudendo il vecchio giornale e portandolo con sé....
Look at that old photograph...is it really you?

19 ottobre 2006

I primi anni del secolo, macchinista ferroviere


Ieri mi è capitato di rileggere, sul blog di un amico, un vecchio post che parlava di treni e partenze e prendendo spunto dal suo incipit, che citava la bellissima Irene di Vecchioni, mi sono fermato a riflettere di come nella canzone italiana le train songs siano praticamente assenti, al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, dove questo genere di canzoni rappresenta tradizionalmente un filone consistente della produzione musicale del paese.
E non è un caso che, cercando di ripensare a quali potessero essere le train songs della tradizione italiana, mi siano venute in mente solo canzoni di autori che dalla musica americana sono stati chi più chi meno influenzati: tra gli altri, il Bubola di "Questo lungo treno" e, ovviamente, l'autore della canzone che dà il titolo a questo post.
Ben diverso è il caso degli Stati Uniti dove, fin dalla sua comparsa, il treno ha fatto da necessario contrappunto al mito della frontiera (tra l'altro, una delle espressioni più comuni è "lonesome whistle": il fischio del treno è un fischio solitario), fornendo gli strumenti materiali alla crescita del giovane paese e diventando, al contempo, anche un luogo d'elezione dove potessero emergere tutte le contraddizioni che questa stessa crescita andava seminando. Così i grandi merci che viaggiavano verso Ovest portavano carbone ed acciaio, ma erano al contempo il mezzo principale di locomozione per gli hobos in cerca di quel "giardino dell'Eden" rappresentato dalla California: il caldo riparo di un vagone diviene quasi una culla in cui addormentarsi col ritmico martellamento dell'acciaio sulle rotaie come ninna nanna, la ninna nanna dell'hobo, appunto.
Il treno, quindi, nell'immaginario americano diviene contemporaneamente un mezzo di sfruttamento e di risoggettivazione, l'espressione tangibile del mito della frontiera, l'immagine di tutta la forza propulsiva di un paese che vuole crescere ad ogni condizione e, per sovramercato, anche il mezzo di trasporto che accompagna amori finiti, in corso o che devono nascere. Tutto questo è splendidamente riassunto da una delle più belle train songs mai scritte, City of New Orleans di Steve Goodman.

CITY OF NEW ORLEANS (Steve Goodman)

Riding on the City of New Orleans
Illinois Central Monday morning rail
Fifteen cars and fifteen restless riders
Three conductors and twenty-five sacks of mail
All along the southbound odyssey
The train pulls out at Kankakee
Rolls along past houses, farms and fields
Passin' towns that have no names
Freight yards full of old black men
And the graveyards of the rusted automobiles

Good morning, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done

Dealin' cards with the old men in the club car
Penny a point, ain't no one keepin' score
Won't you pass the paper bag that holds the bottle
Feel the wheels rumblin' 'neath the floor
And the sons of pullman porters
And the sons of engineers
Ride their father's magic carpet made of steam
Mothers with their babes asleep
Are rockin' to the gentle beat
And the rhythm of the rails is all they dream

Good morning, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done

Night time on The City of New Orleans
Changing cars in Memphis, Tennessee
Half way home, and we'll be there by morning
Through the Mississippi darkness
Rolling down to the sea
And all the towns and people seem
To fade into a bad dream
And the steel rails still ain't heard the news
The conductor sings his song again
The passengers will please refrain
This train's got the disappearing railroad blues

Good night, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done

Good morning, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done

10 ottobre 2006

Questa dura terra promessa americana





"He speaks in your voice, American". Questa frase, che apre uno dei più gradi romanzi americani contemporanei (Underworld di Don De Lillo) descrive bene uno degli aspetti principali della grandezza di Bruce Springsteen: parla con la voce (e qui mantengo volutamente lo spostamento semantico di De Lillo) dell'America - dell'America che ci piace di più, aggiungerei io. Ed è una voce fatta di parole che hanno attraversato i secoli della storia americana per essere declinate in un contesto che andava di volta in volta cambiando, parole come la terra che dà il titolo a questo post.
"This land is your land, this land is my land" cantava Woody Guthrie nella sua canzone più celebre, salvo poi chiedersi alla fine se quella fosse ancora la terra fatta anche per lui e per la sua gente. Così è anche per Springsteen: quella stessa terra che aveva avvertito come terra promessa forse non mantenuta (" I've done my best to live the right way / I get up every morning and go to work each day / But your eyes go blind and your blood runs cold / Sometimes I feel so weak I just want to explode") diventa la dura terra dove il sopravvivere si sostituisce al vivere e il sogno americano ha i colori di un nastro che suona Home on the Range e di un appuntamento alla Liberty Hall, e soprattutto rimane pur sempre un sogno ("Hey, Frank, won't you pack your bags / And meet me tonight down at Liberty Hall/ Just one kiss from you, my brother / And we'll ride until we fall /.../Well if you can't make it stay hard, stay hungry, stay alive if you can / And meet me in a dream of this hard land"). Non c'è quindi da stupirsi se l'unico inedito che è andato ad arricchire il già meraviglioso disco su Pete Seeger sia ancora uno sguardo sull'America, sulla terra americana, uno sguardo in cui la voce americana è fatta anche di tutti gli immigrati che si sono avvicendati sul suolo degli Stati Uniti, chi per rimanere, chi per ripartirne, chi per morire nei campi o nelle fabbriche (o sulla sedia elettrica come Sacco e Vanzetti, anche se questo non è scritto).

AMERICAN LAND (Bruce Springsteen)

What is this land of America? So many travel there
I'm going down while I'm still young, my darlin' meet me there
Wish me luck my lovely, I'll send for you when I can
And we'll make our home in the American land

Over there the women wear silk and satin to their knees

And children near, the sweets I hear are growin' on the trees

Gold comes rushing out the river straight into your hands

If you make your home in the American land

There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song

Dear I hear the beer flows from the faucets all night long

There's treasure for the takin' for any hard working man

Who'll make his home in the American land


I docked at Ellis Island in a city of light and spires

She met me in the valley of red hot steel and fire

We made the steel that built the cities from the sweat of our two hands
And we made our home in the American land

There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song

Dear I hear the beer flows from the faucets all night long
There's treasure for the takin' for any hard working man

Who'll make his home in the American land


The McNicholas, the Posalski's, the Smiths, Zerillis too

The Blacks, the Irish, the Italians, the Germans and the Jews

Come across the water a thousand miles from home

With nothin in their bellies but the fire down below

They died building the railroads, worked to bones and skin

They died in the fields and factories, names scattered in the wind

They died to get here a hundred years ago, they're dying now

The hands that built the country were always trying to keep down

There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song

Dear I hear the beer flows from the faucets all night long

There's treasure for the takin' for any hard working man

Who'll make his home in the American land

Who'll make his home in the American land

Who'll make his home in the American land

05 ottobre 2006

La ballata del vecchio e dell'oceano


Due canzoni, due autori diversi, tra quelli che amo di più, una mailing list, un pomeriggio di qualche tempo fa: mi sono divertito a immaginare questi due racconti fusi in una sola storia...questo è quello che ne è venuto fuori.

Era per imbarcarmi che,
a questo porto ero venuto
conoscitore di caffè, soltanto,
e a tutto il resto sconosciuto.
Ma il primo giorno forse fu
la troppa nebbia a spaventarmi
o il fiato della gioventù, ancora caldo
che non smetteva di tentarmi.
Poi cominciai a contare i mesi
in faccia a molti marinai
ma l'amicizia ci curava
quanto una maledetta birra
perché loro andavano per mare
io non partivo mai.

Chissà cos'è che ogni volta mi trattiene? Eppure era stato profetico quel
giovanotto di Genova: in fondo lo sapeva che a me - suo figlio - quell'uomo
avrebbe trasmesso la sua voglia di mare. Una voglia che non porto come una
macchia sulla guancia destra ma come uno strano richiamo che mi tiene
stretto e mi porta con sé.
Avrei voluto conoscerlo! Avrei voluto conoscere bene entrambi, lui e mia mia
madre - "Esca dalle lunghe gambe" la chiamava, rubando le parole ad un
gallese dal nome di oceano...
E invece eccomi qui, con gli occhi fissi all'orizzonte e il mare che si
agita dentro e fuori di me, a dividere birra con amici che sarebbero potuti
esser compagni e a leggere in loro la vita che avrebbe potuto essere.

E fu per arrangiarmi che
divenni un giorno capitano
ma solamente di un caffè sul porto
vicino al mare ma lontano.
Ci studiavamo diffidenti
io, vecchio straniero senza nave
lui le sue onde intransigenti
di fronte a me
come in un rebus senza chiave.
Ma nelle notti di tempesta
che andavo incontro ad ubriacarlo
pieno di whiskey e giuramenti
e di richieste di pazienza
finché lui non perdono più
la mia falsa partenza.

Chissà se è vero che le città di mare sono tutte simili? Qui, nel caffè che
mi trovo a gestire, son passati tanti volti, ma il suo non lo ricordo.
Eppure ho ben chiaro il suo profilo e la sua sigaretta accompagnata al whisky
che mandava giù ad ogni occasione. Allora aveva il volto già segnato dalle
prime rughe, da due amori finiti ed uno nato da poco ma era ancora senza
barche da scrivere o treni da perdere. Fu allora che gli sentii raccontare
l'inizio della mia storia.

Ed una notte mi sembrò
che mi chiamasse col mio nome
dicendo: "ti concederò la pace
ma ad una giusta condizione"
e così mi convinse
ad andargli sempre più vicino
poi dentro fino alla metà del corpo
e poi più in là fino al mattino.
La mia condanna è di vagare
lungo le coste d'Inghilterra
senza trovare mai riposo
in un paradiso marinaio
perché ho preso il mare, si,
ma camminando sulla terra.

Non so da dove venisse quella voce che mi attirava verso di sé, chiamandomi
per nome e raccontandomi di me - quella voce che fino a quel momento avevo
sempre sentito filtrata dai racconti e dai visi altrui. Non ho capito
subito. Un passo, una domanda, uno sguardo, il rumore di una risposta e via
così fino al principio.
Ora non ne ho più paura anche se siamo tornati a parlarci a distanza, lui
con i suoi cavalli, io con le mie scogliere e in certi giorni mi sembra di
sentirlo parlare con la voce di un giovane genovese poco più che trentenne
che ho sognato di aver incontrato.

Storie


Ci sono autori che più di altri hanno la capacità di raccontare storie, con pochi tratti essenziali, poche pennellate che però restituiscono all'orecchio un'immagine di possibilità. Tom Russell è uno di questi, uno di quelli che quando canta - proprio come accade a Billy the Kid, il personaggio di un racconto di Steve Earle - gli credi. E ti viene facile credergli, soprattutto guardando al suo universo poetico, un universo fatto di persone come il protagonista della canzone che riporto di seguito:

GALLO DEL CIELO (Tom Russell)

Carlos Saragosa left his home in Casas Grandes when the moon was full
He had no money in his pocket, just a locket of his sister framed in Gold
He headed for el Sueco, stole a rooster named Gallo Del Cielo
Then he crossed the Rio Grande with that roosted nestled deep within his arm

Galllo del Cielo was a warrior born in heaven so the legends say
His wings they had been broken, he had one eye rollin crazy in his head
He'd fought a hundred fights and the legends say that one night near El Sueco
they fought Gallo seven times, and seven times he left brave roosters dead

Hola my Teresa I'm thinkin of you now in San Antonio
I have 27 dollars and the good luck of your picture framed in gold
Tonight I'll put it all on the fighting spurs of Gallo Del Cielo
Then I'll return to buy the land Pancho Villa stole from father long ago

Outside of San Diego in the Onion fields of Paco Monte Verde
The Pride of San Diego lay sleeping on a fancy bed of silk
Adn they laughed when Saragosa pulled the one-eyed Del Cielo from beneath his shirt
But they cried when Saragosa waked away with a thousand dollar bill

Hola my Teresa I'm thinkin of you now in Santa Barbara
I have 1500 dollars and the good luck of your picture framed in gold
Tonight I'll put it all on the fighting spurs of Gallo Del Cielo
Then I'll return to buy the land Pancho Villa stole from father long ago

Now the moon has gone to hiding and the lantern light spills shadows on the fighting sand
A wicked black named Zorro faces Del Cielo in the sand
And Carlos Saragosa fears the tiny crack that runs across his roosters beak
And he fears that he has lost the 50,000 dollars riding on the fight

Hola my Teresa I'm thinkin of you now in Santa Clara
The money's on the table, I'm holding now your good luck framed in gold
Everything we dream of is riding on the spurs of Del Cielo
Then I'll return to buy the land Pancho Villa stole from father long ago

The signal it was given and the roosters rose together far above the sand
Gallo Del Cielo sunk a gaff into Zorro's shiny breast
They were separated quickly but they rose and fought each other time and time again
And the legends all agreed that Gallo Del Cielo fought the best

But then the screams of Saragosa filled the night outside the town of Santa Clara
As the beak of Del Cielo lay broken like a shell within his hand
And they say that Saragosa screamed a curse upon the bones of Pancho Villa
As Zorro rose up one more time and drove Del Cielo in the sand

Hola my Teresa I'm thinkin' of you now in San Francisco
I have no money in my pocket I no longer have your good luck framed in gold
I buried it last evening with the bones of my beloved Del Cielo
I will not return to buy the land that Villa stole from father long ago

Do the rivers still run muddy outside of my beloved Casas Grandes?
Does the scar upon my brother's face turn red when he hears mention of my name?
And do the people of El Sueco still curse the theft of Gallo Del Cielo?
Tell my family not to worry, I will not return to cause them shame.

27 settembre 2006

Un maggio durato dieci anni





Un'intera generazione è stata morsicata dalla tarantola del bisogno di giustizia. Parlo di un comunismo quotidiano, difeso nelle lotte a calci e fuochi, racconto l'arco di un giorno perché era l'unità di misura del nostro consistere nella parola comunismo: non nelle patrie estere che esercitavano potere in nome del, non nel futuro anteriore in cui lo avremmo conquistato, ma nello zoppicare dei giorni, dove l'orgoglio era essere migliori non del potere costituito ne' dei nostri padri, ma migliori di noi, di com'eravamo stati il giorno prima, più generosi, risoluti, esperti. Nostro comunismo non puntava ad acchiappare redini di qualche diligenza, non aspettava di partire da una presa di potere, ma si svolgeva e si consumava nell'ondata di nuovi diritti ottenuti per bisogno di giustizia e con metodo di urto frontale. Io so di averlo fatto, lì ed allora, il comunismo che potevo.
Erri de Luca

25 settembre 2006

...Che la guerra è bella anche se fa male



La fortuna alla maniera di Sarajevo
di Izet Sarajlic

A Sarajevo
in questa primavera 1992,
tutto è possibile;
fai la coda per comprare il pane
e ti ritrovi al Servizio di traumatologia
con una gamba amputata.

E dopo asserisci
d'aver avuto anche fortuna.

06 settembre 2006

La gioventù non è questione di anni, ma piuttosto di sassi nel cuore


Specialmente di sera può venire in mente
il rito noioso della sopravvivenza
chi ha più fiato di noi e risparmia alla gente
l'insonnia in cambio dell'indifferenza.

...

Specialmente di sera può venire in mente
il cancro terribile dell'indifferenza
chi è più sano di noi e sta rubando alla gente
la vita in cambio della sopravvivenza.

Claudio Lolli - Torquato

01 settembre 2006

Primo turno, lunedì, 6 di mattina


La New Jersey Turnpike, prima, e la Garden State Parkway, poi, sono due autostrade proprio come te le immagineresti, in una nazione come l'America: tante corsie ed uno sguardo che progressivamente si perde lungo l'orizzonte. Tutte e due tagliano lo stato-giardino da nord a sud, divergendo poco sotto Newark ed entrambe condividono lo stesso paesaggio fatto di ciminiere sbuffanti e pale eoliche che vorticano irrispettose di ogni negazione del moto perpetuo.
Questa è stata una delle mie prime immagini dell'America, un'immagine restituita ai miei occhi di bambino dai vetri di una macchina che quello stesso asfalto calcava per portarmi dalla metropoli verso una provincia dai toni quasi cinematografici, fatta di steccati dipinti e di easter bunnies sui pratini falciati di fresco, fatta di sugar candies e della parata in costume per il giorno di Pasqua sulla Ocean Promenade, una provincia molto simile a quella immortalata nel film True Stories, allora uscito da poco. Eppure, quella cittadina di provincia, potenzialmente anonima nella sua tipicità, aveva già allora per me un some evocativo, che l'avrebbe resa differente da tutte le cittadine analoghe che avrei poi visto in seguito, Asbury Park.
Sono passati quasi vent'anni da quel giorno e in questo lasso di tempo questa immagine è rimasta nascosta nei meandri della mia memoria, una fra le tante finché un giorno, in uno dei miei soliti ascolti springsteeniani, mi è capitato di risentire una canzone, forse tra le meno note del boss, che me l'ha richiamata alla mente.
La canzone si chiama Factory (ovvero Fabbrica) e racconta una storia molto simile alla Sesto San Giovanni dei Gang, uno sguardo di parte sulla condizione operaia e sulla schiavitù del lavoro, che condensa molta più verità di tanti saggi sociologici o presunti tali (d'altronde, è stato proprio Springsteen a dire "abbiamo imparato più da 3 minuti di disco che da tutti gli anni passati a scuola"). Bene, risentendo questa canzone ho ripensato a quelle highways sterminate, dove il sole disegnava arabeschi sulle nuvole di fumo che uscivano dalle fabbriche per chi, come me, le attraversava da turista, e che, invece, rappresentano solo un ulteriore tributo di chilometri pagato al solito dio fatti il culo, per coloro ai quali, giorno dopo giorno, la nebbia "confonde giorno e sera" fino a farli sentire "come dei fantasmi sopra una corriera"


FACTORY (Bruce Springsteen)

Early in the morning factory whistle blows,
Man rises from bed and puts on his clothes,
Man takes his lunch, walks out in the morning light,
It's the working, the working, just the working life.

Through the mansions of fear, through the mansions of pain,
I see my daddy walking through them factory gates in the rain,
Factory takes his hearing, factory gives him life,
The working, the working, just the working life.

End of the day, factory whistle cries,
Men walk through these gates with death in their eyes.
And you just better believe, boy,
somebody's gonna get hurt tonight,
It's the working, the working, just the working life.

31 agosto 2006

SIDUN

"Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. (...) La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea".
Fabrizio De André

U mæ nininu mæ
u mæ
lerfe grasse au su
d'amë d'amë

tûmù duçe benignu
de teu muaè
spremmûu 'nta maccaia
de stæ de stæ

e oua grûmmu de sangue ouëge
e denti de laete
e i euggi di surdatti chen arraggë
cu'a scciûmma a a bucca cacciuéi de bæ

a scurrï a gente cumme selvaggin-a
finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a qué
e doppu u feru in gua i feri d'ä prixún
e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún

perché de nostru da a cianûa a u meü
nu peua ciû cresce aerbu ni spica ni figgeü
ciao mæ 'nin l'ereditæ
l'è ascusa

'nte sta çittæ
ch'a brûxa ch'a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a

12 aprile 2006

..E dopo maiale, Majakovskij, malfatto....

Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni venturi.
In questa vita
non è difficile morire.
Vivere
è di gran lunga più difficile.

E' sempre difficile provare a racchiudere un disco di Claudio entro poche righe, difficile a causa dei continui rimandi ad immaginari che si snodano su più piani (musicale, letterario, visuale) e, soprattutto, difficile perché i testi stessi giocano ad intrecciare quei medesimi piani, in un perpetuo spostamento dialettico tra significante e livelli metaforici più o meno immediati. E allora, proverò a procedere per spunti, buttando giù le prime impressioni dopo il concerto di Sasso Marconi e una decina di ascolti del cd.

E si comincia con un'America "scoperta" non più da un navigatore genovese di fine quattrocento, bensì da un poeta russo dei primi del secolo scorso. Ovviamente non si parla dell'America come luogo geografico, ma come luogo ideale, quella stessa america che, come dice Wim Wenders in un suo film di qualche tempo fa, ha colonizzato il nostro immaginario. E così l'america di Majakovskij non è la terra che il poeta vedrà nell'ultima parte della sua vita, bensì la chiosa della poesia dedicata ad Esenin riportata in epigrafe ("Ed il grande poeta russo Majakovskij/strappare la gioia ai giorni futuri/perché aveva già lui scoperto l'America/coi suoi occhi duri/e dire profetico: 'Amico Esenin,/morire oggi non è difficile/è mille volte più difficile/vivere, vivere, vivere male....' "). Tutto questo inquadrato in una metafora più grande che è quella del cinema, produttore di
immaginario per antonomasia nel ventesimo secolo, esattamente come ne "La fine del cinema muto", quasi che lo strappo del telone cinematografico potesse rappresentare lo squarcio di una sorta di velo di Maya che nascondesse dietro l'esteriorità del divertimento la consapevolezza del dolore del mondo ("Se sai strappare anche il cielo vedi/oltre le nubi colorate in rosso/le pianure immense del dolore che ti vive addosso/in cui cammini, sopravvissuto, /tra dei bagliori sempre più scuri/strappando bacche al terreno/ e la gioia ai giorni futuri/ perché è questo il frutto dell'America/quel paradiso dei divertimenti/in cui sono soltanto i poeti russi /a morire di stenti").
E allora, se il mondo si sviluppa in verticale, la gioia dei giorni futuri può divenire un bisogno orizzontale, non solo perché l'orizzontalità è la dimensione del riposo e, spesso, anche dell'amore (l'amore, si sa, è uno dei modi per salvarsi la vita), ma proprio perché solo in orizzontale è data la possibilità "di una piazza almeno virtuale,/ di discorsi politici, frenetici/ di uno scontro frontale".
Ma la gioia dei giorni futuri si può guadagnare pure sognando, anche se il sogno spesso dura l'istante di un battito d'ali: così la bologna guazzalochiana non è poi troppo lontana dalla nuova bologna di cofferati, bottegaia e borghese, con le spalle coperte dalla forza pubblica ("C'è della gente a Bologna che di sera va verso il
Comunale/vestita bene, con dei vestiti che assomigliano a un carnevale/che guarda dritta verso il futuro scortata dai celerini/c'è della gente a bologna che ha paura dei bambini") che ha anch'essa un suo sogno ("ma il primo sogno è il sogno di decidere e
comandare/mettere a posto i vestiti, la sveglia e andare a lavorare"), cui contrapporre un "secondo sogno,più semplice e più difficile da realizzare").
Quando i sogni si esauriscono, però, vivere può tornare ad essere difficile e bisogna cercare altrove un modo per strappare dell'altra gioia ai giorni futuri; talora quell'altrove è un altrove che uccide, dopo l'immaginario, anche la carne. "Davvero è meglio/morire di vodka,/che di noia!" scrive Majakovskij nella già citata poesia ad Esenin, e questi stessi versi potrebbero accompagnare l'ultima pedalata del campione, proprio come quelle rose che lo attendevano "dal podio del mondo alle ferite mani".
E così, a testimoniare ancora una volta che "in questa vita/ non è difficile morire" subentrano due episodi, diversi per carattere e contenuto, storie di ponti saltati per resistere agli invasori e di un paese sommerso dalla miopia dell'uomo, prima che dall'acqua.
Ma che succede quando chi cerca di strappare la gioia ai giorni futuri "ha sempre gli occhi di un altro colore"? Davanti a quegli occhi il telone del mondo diverrà lo schermo del Nuovo Carcere Paradiso, dove capire "come, in un sogno, che cos'è il dolore". Il muto è finito da un pezzo e il cinema ha il suo nuovo proiezionista: è il "dio che tutti adorano e che regala vuoti di memoria" ("E un dio vi guarda tutti dal buio del suo cielo/vi odia e vi ama tutti con estremo zelo/è il dio dell'oblio e della perplessità/ha una bevanda magica, o forse ce l'avrà/Ha precettato in massa nani e ballerine/ un esercito spietato di puttane ragazzine/ ha prenotato un incubo in DVD/giurando e spergiurando che non finisce qui./E lui verrà a cercarci con le gambe in spalla/a passo di mitraglia, con la faccia gialla/ e ci offrirà per forza con il suo sorriso/vacanze gratis nel nuovo carcere paradiso"). E allora "per queste lacrime dell'occidente/che si accontentano della vendetta/dio, che la gioia dei giorni futuri/non abbia fretta". Ma alla luce dello schermo si contrappone il buio della sala, il buio che nasconde ma anche il buio che affratella, buio che è anche negazione dell'immagine proiettata: "Ma non ci troverà, saremo già scappati/il buio è un buon amico a tutti gli sfollati/Il buio è un
buon amico in tutti i tempi bui/La storia siamo noi, la storia non è lui."

28 marzo 2006

G.

gli occhi
pieni
di parole,
la bocca
che mastica
silenzi,
la fretta
di un saluto
trascinato via
a passi
troppo svelti....

non sono posto
dove vagabondare
stasera
gli abbracci
degli amici.

16 marzo 2006

Chisciotte e gli invisibili

La scena è scarna: fondo nero e, in mezzo al palco, un tavolo di legno con quattro sedie. Sopra il tavolo una lampada, le accensioni e gli spegnimenti della quale, come avrà poi a dire l'autore, rappresentano le cesure tra le diverse stanze in cui si articola la bellissima e sofferta canzone che sta per essere rappresentata. Una canzone con un titolo sospeso tra Cervantes e Balestrini, Chisciotte e gli invisibili.
Tre persone sulla scena, un abile clarinettista, un cantautore ferroviere ed uno scrittore, che poi sarebbe il principale artefice del tutto. Tre persone, quattro sedie, perché l'ultima sedia, quella rimasta vuota è una chiamata di corresponsabilità per quelli che ancora sentono di vivere momenti più o meno lunghi della propria vita come risposta a tutta una serie di domande, quella generazione
catturata dallo stesso autore in una frase del suo Aceto, Arcobaleno.
E allora Chisciotte possono essere i valsusini in lotta, i migranti incarcerati in lager chiamati eufemisticamente centri di permanenza temporanea, ma anche il poeta bosniaco Izet Sarajlic, cittadino tra i cittadini di una città martoriata da bombe umanitarie, e Nazim Hikmet, i cui versi sono serviti da prologo al viaggio in forma di canzone, partito alla ricerca di dulcinea, passato per guerre e morti per soffermarsi, alla fine, in mezzo agli invisibili.
Gli invisibili, descritti prima attraverso i loro piedi costretti ("sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.") e poi attraverso la dedica ad una cara amica, sul cui foglio è scritto: fine pena, mai. Una dedica che all'inizio erano 'linee che vanno troppo spesso a capo' cui, per l'occasione, sono stati aggiunti tre accordi di accompagnamento. Una dedica che qui riporto per intero.


BALLATA PER UNA PRIGIONIERA (Erri de Luca)

Era pericoloso
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio, alberi, strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l'ergastolo non scade,
più vivi più ci resti.

Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.

Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi, lacrime e sorrisi,
debbono avere un po' d'intimità
perché sono selvatici, non sanno
nascere in stato di cattività.

"Non si è più stati insieme, vero, babbo?
Prima la lotta, gli anni clandestini,
neppure una telefonata per Natale,
poi il carcere speciale, la tua faccia,
rivista dietro il vetro divisorio,
intimidita prima, poi spavalda
e con una scrollata delle spalle
dicevi: 'muri, vetri, sbarre, guardie,
non bastano a staccarci,
io sto dalla tua parte
anche senza toccarti,
anzi, guarda che faccio,
metto le mani in tasca'.
Porta pazienza, babbo, anche stavolta
non posso accarezzarti
tra i miei guardiani e i ferri.
Però grazie: di avermi fatto uscire
stamattina, di un gruzzolo di ore
di pena da scontare all'aria aperta".

Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia,
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attraversa la strada, non si gira,
compagna Luna, antica prigioniera
che s'arrende alle sbarre della sera.

15 marzo 2006

è sabato

Bologna, piazza Verdi, tanti anni fa quanti ne ha al momento colui che scrive.
Lavorare con lentezza
senza fare alcuno sforzo....
La radio in sottofondo riporta l'ultima voce di Alice, frammista ai sibili dei colpi di mitraglia sparati ad altezza d'uomo. Lo sconcerto si mischia con la rabbia delle barricate, il fumo dei cassonetti dati alle fiamme cela, insieme ai fazzoletti e alle bandane, un pianto dirotto che si strozza in gola: il paese delle meraviglie, se mai c'è stato, non esiste più da tempo. Per terra, nel sangue, una speranza di futuro.

Stesso giorno, 29 anni dopo. Altre città.
L'inverno passava
qualcuno di lì...

Quand'ebbe riconosciuto l'odore a lui più che familiare, l'uomo sussultò al pensiero di trovarsi davanti una parte del suo passato che egli aveva tentato invano di seppellire dietro un'apparente rispettabilità borghese ed una famiglia regolare. Quell'odore aveva sempre significato per lui presa di responsabilità, la responsabilità di essere fedeli al se stesso che aveva deciso di essere, anche a costo dell'esercizio della violenza.

Finché la violenza dello stato
si chiamerà giustizia
la nostra giustizia
si chiamerà violenza.

Era questa un'equazione che si era sentito più volte di fare, posto di fronte alla scelta tra scappare di fronte al nemico di allora o afferrare la prima cosa che fosse a portata di mano, il primo oggetto utile che la strada offrisse, e farne uno strumento di difesa sì, ma anche di offesa, ove si rendesse necessario. Non era ancora venuto il riflusso ad ingrossare le fila delle carceri e a trasformare un'intera generazione in un esercito di ombre, traghettate da uno speciale all'altro non da un nocchiero dagli occhi di bragia, bensì da molto più anonimi latori, su una meno poetica vettura blindata.

E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate,
senza feriti, senza granate....
Le parole del cantautore genovese, tante volte cantate e spesso gridate, ritornavano insistentemente alla mente, mentre si rivedeva più giovane di trent'anni a calpestare le strade di un'altra città attraversata dalle stesse fiamme. Si ricordava bene come continuasse quella canzone, perché, come tanti altri della sua generazione, si era sempre sentito coinvolto, al punto di arrivare anche a barattare la dolcezza degli abbracci con una breve clandestinità. Roba da poco, in anni in cui altri sferravano l'attacco al cuore dello stato, ma sempre abbastanza da tingere di solitudine gli anni della sconfitta.

Milano mia, portami via
fa tanto freddo, schifo e non ne posso più
facciamo un cambio, prenditi pure
quel po' di soldi, quel po' di celebrità
ma dammi indietro la mia seicento
i miei vent'anni e la ragazza che tu sai.
L'uomo cammina senza specchiarsi nelle vetrine. Era sempre stato troppo preoccupato di avere la mano piena ed il passo veloce per accorgersi di quanto possa essere drammaticamente unica la luce del giorno filtrata attraverso le fiamme di una barricata. Passo dopo passo dimentica di essere uno dei tanti personaggi di un normale sabato italiano in città e, nella sua testa, nomi e date, strade e occasioni si confondono come un fotomontaggio fatto male. Un altro passo e poi si ferma: la sua mano è troppo vuota per poter viaggiare al ritmo lento dei suoi piedi, gli occhi sono rigati di lacrime anche se i candelotti cadono lontano....anche i cassonetti e le auto non fumano più...

Tutte le cose hanno la mestizia della fine.

09 marzo 2006

Solo le stelle abitano i cieli

Immobili
come rami
senza vento
incerti crocicchi
senza tracce
da seguire
solchi sulla battigia
i giorni
si susseguono
interrogativi

Persa
come pioggia
in un torrente
dietro un aquilone
che ti sfugge di mano
non indugi
verso il pugno
vuoto

Darai mani
da stringere
a quel pugno
carezze
per cui distendersi
ti farà sorella
e compagna
reggerà
il peso
delle tue parole

Intreccerà due legni
che ti daranno
di nuovo l'illusione
del volo

Solo i bimbi
conoscono
la serietà
del gioco