28 marzo 2006

G.

gli occhi
pieni
di parole,
la bocca
che mastica
silenzi,
la fretta
di un saluto
trascinato via
a passi
troppo svelti....

non sono posto
dove vagabondare
stasera
gli abbracci
degli amici.

16 marzo 2006

Chisciotte e gli invisibili

La scena è scarna: fondo nero e, in mezzo al palco, un tavolo di legno con quattro sedie. Sopra il tavolo una lampada, le accensioni e gli spegnimenti della quale, come avrà poi a dire l'autore, rappresentano le cesure tra le diverse stanze in cui si articola la bellissima e sofferta canzone che sta per essere rappresentata. Una canzone con un titolo sospeso tra Cervantes e Balestrini, Chisciotte e gli invisibili.
Tre persone sulla scena, un abile clarinettista, un cantautore ferroviere ed uno scrittore, che poi sarebbe il principale artefice del tutto. Tre persone, quattro sedie, perché l'ultima sedia, quella rimasta vuota è una chiamata di corresponsabilità per quelli che ancora sentono di vivere momenti più o meno lunghi della propria vita come risposta a tutta una serie di domande, quella generazione
catturata dallo stesso autore in una frase del suo Aceto, Arcobaleno.
E allora Chisciotte possono essere i valsusini in lotta, i migranti incarcerati in lager chiamati eufemisticamente centri di permanenza temporanea, ma anche il poeta bosniaco Izet Sarajlic, cittadino tra i cittadini di una città martoriata da bombe umanitarie, e Nazim Hikmet, i cui versi sono serviti da prologo al viaggio in forma di canzone, partito alla ricerca di dulcinea, passato per guerre e morti per soffermarsi, alla fine, in mezzo agli invisibili.
Gli invisibili, descritti prima attraverso i loro piedi costretti ("sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.") e poi attraverso la dedica ad una cara amica, sul cui foglio è scritto: fine pena, mai. Una dedica che all'inizio erano 'linee che vanno troppo spesso a capo' cui, per l'occasione, sono stati aggiunti tre accordi di accompagnamento. Una dedica che qui riporto per intero.


BALLATA PER UNA PRIGIONIERA (Erri de Luca)

Era pericoloso
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio, alberi, strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l'ergastolo non scade,
più vivi più ci resti.

Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.

Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi, lacrime e sorrisi,
debbono avere un po' d'intimità
perché sono selvatici, non sanno
nascere in stato di cattività.

"Non si è più stati insieme, vero, babbo?
Prima la lotta, gli anni clandestini,
neppure una telefonata per Natale,
poi il carcere speciale, la tua faccia,
rivista dietro il vetro divisorio,
intimidita prima, poi spavalda
e con una scrollata delle spalle
dicevi: 'muri, vetri, sbarre, guardie,
non bastano a staccarci,
io sto dalla tua parte
anche senza toccarti,
anzi, guarda che faccio,
metto le mani in tasca'.
Porta pazienza, babbo, anche stavolta
non posso accarezzarti
tra i miei guardiani e i ferri.
Però grazie: di avermi fatto uscire
stamattina, di un gruzzolo di ore
di pena da scontare all'aria aperta".

Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia,
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attraversa la strada, non si gira,
compagna Luna, antica prigioniera
che s'arrende alle sbarre della sera.

15 marzo 2006

è sabato

Bologna, piazza Verdi, tanti anni fa quanti ne ha al momento colui che scrive.
Lavorare con lentezza
senza fare alcuno sforzo....
La radio in sottofondo riporta l'ultima voce di Alice, frammista ai sibili dei colpi di mitraglia sparati ad altezza d'uomo. Lo sconcerto si mischia con la rabbia delle barricate, il fumo dei cassonetti dati alle fiamme cela, insieme ai fazzoletti e alle bandane, un pianto dirotto che si strozza in gola: il paese delle meraviglie, se mai c'è stato, non esiste più da tempo. Per terra, nel sangue, una speranza di futuro.

Stesso giorno, 29 anni dopo. Altre città.
L'inverno passava
qualcuno di lì...

Quand'ebbe riconosciuto l'odore a lui più che familiare, l'uomo sussultò al pensiero di trovarsi davanti una parte del suo passato che egli aveva tentato invano di seppellire dietro un'apparente rispettabilità borghese ed una famiglia regolare. Quell'odore aveva sempre significato per lui presa di responsabilità, la responsabilità di essere fedeli al se stesso che aveva deciso di essere, anche a costo dell'esercizio della violenza.

Finché la violenza dello stato
si chiamerà giustizia
la nostra giustizia
si chiamerà violenza.

Era questa un'equazione che si era sentito più volte di fare, posto di fronte alla scelta tra scappare di fronte al nemico di allora o afferrare la prima cosa che fosse a portata di mano, il primo oggetto utile che la strada offrisse, e farne uno strumento di difesa sì, ma anche di offesa, ove si rendesse necessario. Non era ancora venuto il riflusso ad ingrossare le fila delle carceri e a trasformare un'intera generazione in un esercito di ombre, traghettate da uno speciale all'altro non da un nocchiero dagli occhi di bragia, bensì da molto più anonimi latori, su una meno poetica vettura blindata.

E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate,
senza feriti, senza granate....
Le parole del cantautore genovese, tante volte cantate e spesso gridate, ritornavano insistentemente alla mente, mentre si rivedeva più giovane di trent'anni a calpestare le strade di un'altra città attraversata dalle stesse fiamme. Si ricordava bene come continuasse quella canzone, perché, come tanti altri della sua generazione, si era sempre sentito coinvolto, al punto di arrivare anche a barattare la dolcezza degli abbracci con una breve clandestinità. Roba da poco, in anni in cui altri sferravano l'attacco al cuore dello stato, ma sempre abbastanza da tingere di solitudine gli anni della sconfitta.

Milano mia, portami via
fa tanto freddo, schifo e non ne posso più
facciamo un cambio, prenditi pure
quel po' di soldi, quel po' di celebrità
ma dammi indietro la mia seicento
i miei vent'anni e la ragazza che tu sai.
L'uomo cammina senza specchiarsi nelle vetrine. Era sempre stato troppo preoccupato di avere la mano piena ed il passo veloce per accorgersi di quanto possa essere drammaticamente unica la luce del giorno filtrata attraverso le fiamme di una barricata. Passo dopo passo dimentica di essere uno dei tanti personaggi di un normale sabato italiano in città e, nella sua testa, nomi e date, strade e occasioni si confondono come un fotomontaggio fatto male. Un altro passo e poi si ferma: la sua mano è troppo vuota per poter viaggiare al ritmo lento dei suoi piedi, gli occhi sono rigati di lacrime anche se i candelotti cadono lontano....anche i cassonetti e le auto non fumano più...

Tutte le cose hanno la mestizia della fine.

09 marzo 2006

Solo le stelle abitano i cieli

Immobili
come rami
senza vento
incerti crocicchi
senza tracce
da seguire
solchi sulla battigia
i giorni
si susseguono
interrogativi

Persa
come pioggia
in un torrente
dietro un aquilone
che ti sfugge di mano
non indugi
verso il pugno
vuoto

Darai mani
da stringere
a quel pugno
carezze
per cui distendersi
ti farà sorella
e compagna
reggerà
il peso
delle tue parole

Intreccerà due legni
che ti daranno
di nuovo l'illusione
del volo

Solo i bimbi
conoscono
la serietà
del gioco

07 marzo 2006

Ce n'est qu'un début

Scena prima. Interno giorno.
Ma sedendo e mirando interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo....

Il pomeriggio romano è carico di luce. Poche ma intense folate di vento scuotono i pini, che costituiscono il paesaggio più prossimo all'unica finestra della stanza. Il ragazzo è solo. Davanti agli occhi, oltre alla finestra, una moltitudine di pixels che rispondono variamente ai movimenti delle sue dita sulla tastiera, frammenti di storie trasformati in un orgiastico accoppiamento di zeri ed uno e restituiti agli occhi del lettore di passaggio sotto forma di parole.

...è questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che aumenta de potenza e de valore
più so' li zeri che je vanno appresso.

Il ragazzo guarda fuori e si ferma a pensare. Cerca le parole per salutare una nascita che in realtà è solo una trasformazione, una trasformazione che egli sa bene non si compirà mai del tutto, perché il ragazzo è ancora affezionato alla penna ed ai suoi Moleskine. Il ragazzo affida allo schermo parole ed immagini, frammenti di una narrativa dell'essere senz'alcuna pretesa di generalità. Il ragazzo ha voglia di raccontare, raccontare coi suoi occhi e con le sue dita una storia possibile, fatta di bivi e di domande, di improvvisati compagni di viaggio e di inattese deviazioni.

...Vivere è una tela di cose
con cui riempire i lunghi intervalli
tra un momento e l'altro di felicità.....