24 agosto 2009

intermezzo in nero

File:Johnny Cash At Folsom Prison.jpg
La mattina del 13 gennaio 1968 in pochi forse sapevano che da quel giorno la musica country non sarebbe stata più la stessa, forse nemmeno lui stesso se l'aspettava. Era arrivato nei pressi di Sacramento un paio di giorni prima, fresco di divorzio e con alle spalle un lungo periodo di disintossicazione. Con lui pochi e stretti collaboratori: Carl e le sue scarpe di camoscio blu, i fidi Tennessee Three e ovviamente lei, June, la donna che sarebbe stata la sua compagna per la vita. Chissà se al momento di salire su quell'insolito palcoscenico gli sia davvero passata davanti agli occhi tutta la sua vita fino a quel punto, come suggerito dal bel film uscito qualche anno fa. Probabilmente la realtà sarà stata un po' meno poetica della celluloide, ma sicuramente più di un pensiero avrà attraversato la mente dell'uomo. Già, perché anche se aveva suonato in altre occasioni all'interno di luoghi di massima sicurezza, questa volta l'impegno aveva anche assunto il tono di una scommessa: nessuna Opry a testimoniare il ritorno dell'uomo in nero, ma piuttosto il pubblico che forse sentiva più suo; nessuno studio di registrazione, ma piuttosto un disco dal vivo registrato in quella Folsom che aveva colpito a tal punto la sua immaginazione di giovane soldato, da spingerlo a scriverci su una delle sue canzoni più famose.
La scaletta, un alternarsi di murder ballads e gospel, quasi a voler ribadire verso chi dovesse essere diretta l'attenzione del suo signore, dove egli dovesse guardare e forse long black veil è il punto più rappresentativo di questa commistione.
Chissà se abbia pensato questo o altro, prima che fosse arrivato il momento di ritrovarsi davanti alle luci e di pronunciare le fatidiche parole....
"Hallo, I'm Johnny Cash"


21 agosto 2009

all'ombra del grande timoniere



1. La Cina è vicina?

All’aeroporto arrivo come al solito, ovvero con un anticipo ridotto al minimo e strettamente necessario per cercare di non dover prendere l’aereo al volo come Fantozzi l’autobus sulla sopraelevata del Pigneto. Anche il bagaglio è, come di costume, impacchettato last minute, per cui doccia al volo e si parte. Roma-Beijing passando per Helsinki, scelta probabilmente perdente in termini di attesa all’aeroporto intermedio, ma sicuramente vincente in termini di prezzo, per cui da prendere al volo. E tutto sommato non è nemmeno la più brutta delle città dove atterrare ed è anche abbastanza in linea con la tratta da percorrere, niente di paragonabile con altre geniali combinazioni che ho dovuto provare in momenti di necessità, tipo Roma-Eindhoven passando per Londra oppure Budapest-Marsiglia passando per Bruxelles. L’unico peccato è che l’aeroporto si trova abbastanza fuori città, per cui l’idea di utilizzare il tempo tra i voli per fare un salto in centro a godersi qualche ora di sole sull’Esplanade, magari accompagnata da salmone marinato e Lapin Kulta è destinata a svanire presto. In realtà sia la Lapin Kulta che il salmone marinato non me li sono fatti mancare…certo, in una cornice sicuramente meno affascinante, quale può essere il tavolino di uno dei caffè dell’aeroporto di Vantaa.

Con queste premesse, sono imbarcato anche sul secondo volo e ho scoperto con mia grande sorpresa – era un po’ che non facevo un volo intercontinentale – che ormai l’intrattenimento a bordo ha raggiunto livelli di tecnologizzazione per cui ogni passeggero può scegliere il tipo di intrattenimento audio o video che desidera con un offerta per nulla malvagia. Per cui, decidendo di rivedermi Watchmen e qualche puntata tra Simpson e i Griffin nel periodo non occupato dal sonno e dal fantastico cibo di bordo (che, va detto, non era nemmeno eccessivamente malvagio) mi sono ritrovato a muovermi in volo quasi parallelo alla transiberiana.

E devo dire anche che speravo che la prima impressione di Beijing mi venisse dall’alto e forse così tutto sommato è stato, anche se non nel modo che intendevo io. Infatti, le prime nitide immagini della città che ho ricevuto erano solamente quelle della pista di atterraggio un minuto prima di toccare terra, per il resto, tutt’attorno c’erano solo foschia e cappa che fino all’ultimo mi hanno fatto pensare che fossimo ancora fra le nuvole.

2. La biopolitica al tempo dell’aviaria

È cominciato tutto così: a bordo, insieme alla dichiarazione di ingresso, adesso ti servono anche un modulo da compilare atto ad investigare i tuoi recenti e futuri spostamenti e a chiederti se tu o qualche tuo sodale possiedano sintomi che facciano presagire un contagio da parte del virus H5N1. E fino a qui, tutto sommato la cosa poteva anche sembrarmi ragionevole, visto il panico scatenato ovunque a mezzo stampa. Tuttavia, già il primo sentore che qualcosa non andasse così semplicemente si è avuto quando ci è stato intimato di non scendere dall’aereo anche quando questo fosse atterrato completamente e di attendere l’ok dall’ispettore sanitario. Ma la cosa più impressionante è stato vedere il sistema di filtri e barriere che è stato messo in atto prima del controllo dei visti (ovvero nel punto in cui il famoso modulino di cui sopra avrebbe dovuto essere consegnato). Tre posti di blocco consecutivi ognuno munito di rivelatore infrarosso per stimare a distanza la temperatura corporea, e canali differenziali rispetto alle zone di origine, un altro modo di gestire le frontiere e le linee di confine. Ma questo non è ancora tutto, arrivato alla mia residenza, una specie di studentato per ospiti e dottorandi internazionali, mi è stato intimato di presentarmi ogni mattina per 7 giorni affinché potessero rilevare la mia temperatura corporea e sincerarsi che non diffondessi la pandemia in tutta la Cina. Credo che la mia salute non sia stata mai monitorata così tanto…..


3. Train a-ride

Avendo già anticipato il mio arrivo alla residenza, faccio un passo indietro per parlare del viaggio dall’aeroporto alla residenza stessa. Devo qui premettere, che a questo punto già non ero più da solo perché, nel frattempo, il mio collega americano Pete e la sua ragazza Sharon, di Shanghai (ovviamente lei non si chiama così, si chiama qualcosa tipo Fei Min, ma capita spesso, soprattutto in contesti lavorativi transnazionali, che i locali forniscano una versione occidentalizzata del loro nome, anche se le volte che mi è capitato di imbattermi in tali situazioni mi è sempre stato difficile riconoscere il nesso tra un nome e l’altro). Comunque, considerata l’ora d’arrivo e la possibilità di rimanere bloccati per ore nel traffico, scegliamo di lasciare da parte il taxi che, a dispetto di molte città del mondo, costituisce una delle forme di mobilità più economiche qui in Cina, e optiamo per la combinazione treno-metropolitana. Entrambi costituiscono parte dell’eredità delle recenti Olimpiadi e sono tra i mezzi migliori per spostarsi, anche se meritano quanto meno un paio di considerazioni. La prima riguarda il treno che congiunge il centro cittadino con l’aeroporto: secondo le ultime stime, attraverso l’aeroporto di Beijing l’anno scorso sono transitati qualcosa come 85 milioni di passeggeri….beh, con questi numeri fa strano immaginare che un treno pensato ex novo abbia uno spazio dedicato solo per una decina di valigie a vagone, dando luogo a dei livelli di incastro degni del miglior tetris. La seconda considerazione riguarda la metropolitana, ma in realtà le situazioni di folla in generale. È ovvio e pensabile che in una città che conta più di dieci milioni di abitanti, per quanto frequente possa essere, la metropolitana nelle ore di punta sarà sempre strapiena, e per questo sicuramente la metro A di Roma costituisce un’ottima palestra, però quello che è impressionante è l’approccio Mai dire Banzai con cui gli autoctoni praticano l’obiettivo….


4. Una pizza in compagnia, una pizza da soli….

Ovviamente avrei fatto meglio a scrivere un wanton (o, nella codifica pinyin, un hun-tun) ma la citazione eliana penso possa essere una buona introduzione a questo sottoparagrafo dedicato alla parte culinaria – ovviamente ancora parziale – di questo viaggio. Il cibo, come tra l’altro in molte culture, costituisce un elemento di socialità assolutamente predominante: discussioni d’affari, discussioni di lavoro, chiacchiere tra amici…ogni occasione è buona per non dover affrontare il resto della giornata a stomaco vuoto. E il nostro ospite Zhou Yiang non è stato da meno per cui – riusciti ad estorcere una lieve dilazione di tempo per poterci fare una doccia – siamo subito stati portati a mangiare. E così sono subito entrato in contatto con una di quelle che sono le caratteristiche principali della cucina cinese, ovvero l’assoluta varietà di piatti che essa è in grado di offrire. Che si tratti di carni, pesci, verdure, zuppe, i menù cinesi trasformano in cibo qualsiasi cosa si muova o anche resti ferma …Asino, anguilla, tartarughe, molluschi di varia natura, funghi e altre piante dall’origine botanica assolutamente sconosciuta…persino il tofu riesce quasi a sembrare saporito. E, ovviamente, stando a Pechino, il piatto nazionale…ovvero l’anatra arrosto, non per altro chiamata anatra alla pechinese. La prima che assaggio è in un ristorante in cui ci porta il capo di Sharon e sicuramente è un ottimo inizio. Il ristorante si chiama Da Dong e per cinque anni è stato votato il miglior ristorante di Pechino e, per quanto la mia breve conoscenza della città mi ha permesso di apprezzare, potrei senza dubbio essere d’accordo con chi ha stilato la classifica: già uno sguardo al menù (che credo abbia più pagine del libretto rosso) rappresenta un’esperienza gastronomicamente mistica… Da Dong rappresenta uno di quei posti dove si capisce che la cucina cinese è ben oltre l’immagine che noi ne ricaviamo, ovvero di quella di una cucina a buonissimo mercato e di qualità mediocre: questo è un posto dove tale cucina raggiunge livelli da gourmet. Aiutati dal fatto di essere stati invitati, e quindi di non essere noi a dover pagare, affrontiamo a cuor leggero la prova, iniziando con assaggi di alcuni degli invitantissimi piatti del già citato menù, ma soffermandoci soprattutto su di lei, la protagonista indiscussa della serata, ovvero l’anatra.

Non se ne abbiano a male gli amanti di Paperino o Daffy Duck, però l’anatra alla pechinese è sul serio un piatto speciale. Prima di tutto il concetto: per i pechinesi è un po’ come per noi il maiale…non si butta niente, e infatti, a chiusura di cena (altra particolarità cinese, le zuppe si servono alla fine, e non all’inizio del pasto), alcune parti non utilizzate per l’arrosto ci sono state servite sotto forma di brodo. Poi, il piatto in sé: come ci è stato spiegato dai nostri meticolosi ospiti, c’è una logica da seguire nella degustazione del volatile nazionale, logica che, anche in questo caso, va un po’ a sovvertire il nostro sentire comune. Infatti, si parte con il dolce (per modo di dire) per poi continuare. Quello che io chiamo dolce non sarebbe altro, in realtà, che la cotenna dell’anatra da immergere nello zucchero e mangiare. Deliziosa. Per poi proseguire con il resto della carne, da accostare a verdure crude di vario genere, principalmente cetrioli e rafano, ed imbustare in una specie di crèpe o in un panino al sesamo.


5. Drive my car

Al traffico e alla guida sportiva credevo di essere preparato, vivendo a Roma e comunque avendo ascendenze da terre in cui la guida ordinata e disciplinata è un optional, ma devo dire che girare in macchina per le strade della Cina è assolutamente un’esperienza. Da un lato perché comunque, soprattutto in città come Beijing, che hanno più di 10 milioni di abitanti, in certi momenti della giornata prendere la macchina significa essere consapevoli del fatto che si rimarrà bloccati su qualcuna delle migliaia di strade cittadine le quali, nonostante molte siano a tre o più corsie, comunque non riescono a smaltire il traffico veicolare. Dall’altro, perché un modo di guidare simile non si vede nemmeno nel videogioco più audace. Biciclette che tagliano la strada o che cambiano direzione all’improvviso, ritrovandosi ad andare contromano, macchine che fanno lo stesso, tassisti che si fanno avanti armati di sterzo e clacson e chi più ne ha più ne metta. Ma soprattutto, degno di nota è l’approccio alle strade statali, soprattutto quelle in cui il traffico veicolare non è distribuito in maniera simmetrica tra le due direzioni di marcia: infatti, in questi casi, l’automobilista cinese tende ad occupare entrambe le carreggiate, incurante del fatto che dall’altro lato possa da un momento all’altro arrivare qualcuno, e riservandosi la possibilità di rientrare sulla carreggiata giusta a tempo di record nel momento in cui quel qualcuno stesso si palesi. Quando siamo andati a visitare la grande muraglia, credevo che il farmi stare seduto al posto accanto al guidatore fosse una cortesia che i miei ospiti mi facevano in quanto forestiero e per la prima volta in cina….soltanto dopo ho capito che era perché anche loro avevano paura della guida di chi ci stava accompagnando…..

03 agosto 2009

Other voices, other rooms...



Rubo il titolo al romanzo di Truman Capote (e al bellissimo disco di Nanci Griffith) per parlare di un'altra settimana densa di viaggi e di concerti. L'inizio è stato dei più promettenti, quando in compagnia di amici venuti da vicino e da un po' più lontano, l'estate romana ci ha offerto un john fogerty in splendida forma nella cornice della cavea dell'auditorium.
Tra canzoni più nuove e cavalli di battaglia dei Creedence, sono passate più di due ore di puro rock 'n' roll, in cui l'abilità chitarristica e vocale di fogerty è stata brillantemente sostenuta da una band assolutamente all'altezza, e da un pubblico entusiasta che non ha smesso mai di cantare e ballare.
Con queste note ancora nella testa, ho preso un aereo con destinazione Santander. Già perché la decisione di risentire il boss allo stadio di Bilbao è stata la scusa per visitare i paesi baschi ed andare a trovare alcuni amici. Del concerto di Springsteen dirò poco, avendo già parlato del precedente, menzionando solamente la presenza in scaletta di Factory e This Hard Land ed un'incredibile versione di You never can tell di Chauck Berry, improvvisata su richiesta di qualcuno del pit. Qualche parola di più merita forse bilbao. Non saprei se si possa definire una città bella, per quanto contenga degli elementi di sicuro valore, però è una città sicuramente audace nella sua architettura e nella sua sfida a mescolare elementi di grande modernità come lo splendido Guggenheim di Frank Gehry ed edifici di diversi secoli prima. Sicuramente un posto in cui ritornare....magari per un altro concerto ...