30 ottobre 2006
..Vuoi mettere risorgere, Paz!
"Mi sono mosso perché era inevitabile che lo facessi
Mi sono messo a disegnare perché era inevitabile che lo facessi
Mi sono messo a disegnare perché dovevo raccontare quello che vedevo...."
Andrea Pazienza
23 ottobre 2006
Il pellegrino
Bianco e nero, così come la bellissima foto di copertina. L'inquadratura si apre su una rivista di più di tren'anni prima, indugiando sulla fotografia di un giovane cantautore allora emergente. Stacco. Un uomo cammina in mezzo al deserto americano; incorniciata tra la sabbia e le montagne se ne distingue solo la sagoma, che avanza a passi calmi ma costanti. L'inquadratura si fa più vicina: l'uomo cammina lungo un binario - forse morto - e porta una chitarra su una spalla; c'è una galleria da attraversare e ancora l'immagine restituisce solo i contorni della figura, che per quanto sappiamo potrebbe essere uno dei tanti hobos che hanno ripercorso quei binari più e più volte. All'uscita della galleria, la luce svela i tratti dell'uomo: in apparenza è lo stesso di quella fotografia, solo che più vecchio, ma sarà poi davvero lui? cammina seguendo i binari, solo, lui e la sua chitarra, e si lascia dietro anche i treni che si son fermati in qualche stazione senza nome (eh sì, ne ha fatta di strada nel frattempo!). Di fronte a lui è di nuovo deserto, ma continua a camminare, perché la strada ha ancora arcobaleni da restituirgli: anche se la chitarra rimane ancora sulle spalle, l'uomo ha ancora voglia di suonare, e così accompagna i suoi passi verso il tramonto aiutandosi con un'armonica, mentre la sua ombra si allunga sul deserto.
L'uomo continua per la sua strada: sul volto un sorriso tra il consapevole ed il beffardo abbandona l'inquadratura, lasciando solo le ultime luci sul deserto a far da corollario alla sabbia. E' il vento ad avere l'ultima parola, chiudendo il vecchio giornale e portandolo con sé....
Look at that old photograph...is it really you?
19 ottobre 2006
I primi anni del secolo, macchinista ferroviere
Ieri mi è capitato di rileggere, sul blog di un amico, un vecchio post che parlava di treni e partenze e prendendo spunto dal suo incipit, che citava la bellissima Irene di Vecchioni, mi sono fermato a riflettere di come nella canzone italiana le train songs siano praticamente assenti, al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, dove questo genere di canzoni rappresenta tradizionalmente un filone consistente della produzione musicale del paese.
E non è un caso che, cercando di ripensare a quali potessero essere le train songs della tradizione italiana, mi siano venute in mente solo canzoni di autori che dalla musica americana sono stati chi più chi meno influenzati: tra gli altri, il Bubola di "Questo lungo treno" e, ovviamente, l'autore della canzone che dà il titolo a questo post.
Ben diverso è il caso degli Stati Uniti dove, fin dalla sua comparsa, il treno ha fatto da necessario contrappunto al mito della frontiera (tra l'altro, una delle espressioni più comuni è "lonesome whistle": il fischio del treno è un fischio solitario), fornendo gli strumenti materiali alla crescita del giovane paese e diventando, al contempo, anche un luogo d'elezione dove potessero emergere tutte le contraddizioni che questa stessa crescita andava seminando. Così i grandi merci che viaggiavano verso Ovest portavano carbone ed acciaio, ma erano al contempo il mezzo principale di locomozione per gli hobos in cerca di quel "giardino dell'Eden" rappresentato dalla California: il caldo riparo di un vagone diviene quasi una culla in cui addormentarsi col ritmico martellamento dell'acciaio sulle rotaie come ninna nanna, la ninna nanna dell'hobo, appunto.
Il treno, quindi, nell'immaginario americano diviene contemporaneamente un mezzo di sfruttamento e di risoggettivazione, l'espressione tangibile del mito della frontiera, l'immagine di tutta la forza propulsiva di un paese che vuole crescere ad ogni condizione e, per sovramercato, anche il mezzo di trasporto che accompagna amori finiti, in corso o che devono nascere. Tutto questo è splendidamente riassunto da una delle più belle train songs mai scritte, City of New Orleans di Steve Goodman.
Riding on the City of New Orleans
Illinois Central Monday morning rail
Fifteen cars and fifteen restless riders
Three conductors and twenty-five sacks of mail
All along the southbound odyssey
The train pulls out at Kankakee
Rolls along past houses, farms and fields
Passin' towns that have no names
Freight yards full of old black men
And the graveyards of the rusted automobiles
Good morning, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done
Dealin' cards with the old men in the club car
Penny a point, ain't no one keepin' score
Won't you pass the paper bag that holds the bottle
Feel the wheels rumblin' 'neath the floor
And the sons of pullman porters
And the sons of engineers
Ride their father's magic carpet made of steam
Mothers with their babes asleep
Are rockin' to the gentle beat
And the rhythm of the rails is all they dream
Good morning, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done
Night time on The City of New Orleans
Changing cars in Memphis, Tennessee
Half way home, and we'll be there by morning
Through the Mississippi darkness
Rolling down to the sea
And all the towns and people seem
To fade into a bad dream
And the steel rails still ain't heard the news
The conductor sings his song again
The passengers will please refrain
This train's got the disappearing railroad blues
Good night, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done
Good morning, America, how are you
Don't you know me, I'm your native son
I'm the train they call The City of New Orleans
I'll be gone five hundred miles when the day is done
10 ottobre 2006
Questa dura terra promessa americana
"He speaks in your voice, American". Questa frase, che apre uno dei più gradi romanzi americani contemporanei (Underworld di Don De Lillo) descrive bene uno degli aspetti principali della grandezza di Bruce Springsteen: parla con la voce (e qui mantengo volutamente lo spostamento semantico di De Lillo) dell'America - dell'America che ci piace di più, aggiungerei io. Ed è una voce fatta di parole che hanno attraversato i secoli della storia americana per essere declinate in un contesto che andava di volta in volta cambiando, parole come la terra che dà il titolo a questo post. "This land is your land, this land is my land" cantava Woody Guthrie nella sua canzone più celebre, salvo poi chiedersi alla fine se quella fosse ancora la terra fatta anche per lui e per la sua gente. Così è anche per Springsteen: quella stessa terra che aveva avvertito come terra promessa forse non mantenuta (" I've done my best to live the right way / I get up every morning and go to work each day / But your eyes go blind and your blood runs cold / Sometimes I feel so weak I just want to explode") diventa la dura terra dove il sopravvivere si sostituisce al vivere e il sogno americano ha i colori di un nastro che suona Home on the Range e di un appuntamento alla Liberty Hall, e soprattutto rimane pur sempre un sogno ("Hey, Frank, won't you pack your bags / And meet me tonight down at Liberty Hall/ Just one kiss from you, my brother / And we'll ride until we fall /.../Well if you can't make it stay hard, stay hungry, stay alive if you can / And meet me in a dream of this hard land"). Non c'è quindi da stupirsi se l'unico inedito che è andato ad arricchire il già meraviglioso disco su Pete Seeger sia ancora uno sguardo sull'America, sulla terra americana, uno sguardo in cui la voce americana è fatta anche di tutti gli immigrati che si sono avvicendati sul suolo degli Stati Uniti, chi per rimanere, chi per ripartirne, chi per morire nei campi o nelle fabbriche (o sulla sedia elettrica come Sacco e Vanzetti, anche se questo non è scritto).
AMERICAN LAND (Bruce Springsteen)
What is this land of America? So many travel there
I'm going down while I'm still young, my darlin' meet me there
Wish me luck my lovely, I'll send for you when I can
And we'll make our home in the American land
Over there the women wear silk and satin to their knees
And children near, the sweets I hear are growin' on the trees
Gold comes rushing out the river straight into your hands
If you make your home in the American land
There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song
Dear I hear the beer flows from the faucets all night long
There's treasure for the takin' for any hard working man
Who'll make his home in the American land
I docked at Ellis Island in a city of light and spires
She met me in the valley of red hot steel and fire
We made the steel that built the cities from the sweat of our two hands
And we made our home in the American land
There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song
Dear I hear the beer flows from the faucets all night long
There's treasure for the takin' for any hard working man
Who'll make his home in the American land
The McNicholas, the Posalski's, the Smiths, Zerillis too
The Blacks, the Irish, the Italians, the Germans and the Jews
Come across the water a thousand miles from home
With nothin in their bellies but the fire down below
They died building the railroads, worked to bones and skin
They died in the fields and factories, names scattered in the wind
They died to get here a hundred years ago, they're dying now
The hands that built the country were always trying to keep down
There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song
Dear I hear the beer flows from the faucets all night long
There's treasure for the takin' for any hard working man
Who'll make his home in the American land
Who'll make his home in the American land
Who'll make his home in the American land
05 ottobre 2006
La ballata del vecchio e dell'oceano
Due canzoni, due autori diversi, tra quelli che amo di più, una mailing list, un pomeriggio di qualche tempo fa: mi sono divertito a immaginare questi due racconti fusi in una sola storia...questo è quello che ne è venuto fuori.
Era per imbarcarmi che,
a questo porto ero venuto
conoscitore di caffè, soltanto,
e a tutto il resto sconosciuto.
Ma il primo giorno forse fu
la troppa nebbia a spaventarmi
o il fiato della gioventù, ancora caldo
che non smetteva di tentarmi.
Poi cominciai a contare i mesi
in faccia a molti marinai
ma l'amicizia ci curava
quanto una maledetta birra
perché loro andavano per mare
io non partivo mai.
Chissà cos'è che ogni volta mi trattiene? Eppure era stato profetico quel
giovanotto di Genova: in fondo lo sapeva che a me - suo figlio - quell'uomo
avrebbe trasmesso la sua voglia di mare. Una voglia che non porto come una
macchia sulla guancia destra ma come uno strano richiamo che mi tiene
stretto e mi porta con sé.
Avrei voluto conoscerlo! Avrei voluto conoscere bene entrambi, lui e mia mia
madre - "Esca dalle lunghe gambe" la chiamava, rubando le parole ad un
gallese dal nome di oceano...
E invece eccomi qui, con gli occhi fissi all'orizzonte e il mare che si
agita dentro e fuori di me, a dividere birra con amici che sarebbero potuti
esser compagni e a leggere in loro la vita che avrebbe potuto essere.
E fu per arrangiarmi che
divenni un giorno capitano
ma solamente di un caffè sul porto
vicino al mare ma lontano.
Ci studiavamo diffidenti
io, vecchio straniero senza nave
lui le sue onde intransigenti
di fronte a me
come in un rebus senza chiave.
Ma nelle notti di tempesta
che andavo incontro ad ubriacarlo
pieno di whiskey e giuramenti
e di richieste di pazienza
finché lui non perdono più
la mia falsa partenza.
Chissà se è vero che le città di mare sono tutte simili? Qui, nel caffè che
mi trovo a gestire, son passati tanti volti, ma il suo non lo ricordo.
Eppure ho ben chiaro il suo profilo e la sua sigaretta accompagnata al whisky
che mandava giù ad ogni occasione. Allora aveva il volto già segnato dalle
prime rughe, da due amori finiti ed uno nato da poco ma era ancora senza
barche da scrivere o treni da perdere. Fu allora che gli sentii raccontare
l'inizio della mia storia.
Ed una notte mi sembrò
che mi chiamasse col mio nome
dicendo: "ti concederò la pace
ma ad una giusta condizione"
e così mi convinse
ad andargli sempre più vicino
poi dentro fino alla metà del corpo
e poi più in là fino al mattino.
La mia condanna è di vagare
lungo le coste d'Inghilterra
senza trovare mai riposo
in un paradiso marinaio
perché ho preso il mare, si,
ma camminando sulla terra.
Non so da dove venisse quella voce che mi attirava verso di sé, chiamandomi
per nome e raccontandomi di me - quella voce che fino a quel momento avevo
sempre sentito filtrata dai racconti e dai visi altrui. Non ho capito
subito. Un passo, una domanda, uno sguardo, il rumore di una risposta e via
così fino al principio.
Ora non ne ho più paura anche se siamo tornati a parlarci a distanza, lui
con i suoi cavalli, io con le mie scogliere e in certi giorni mi sembra di
sentirlo parlare con la voce di un giovane genovese poco più che trentenne
che ho sognato di aver incontrato.
Storie
Ci sono autori che più di altri hanno la capacità di raccontare storie, con pochi tratti essenziali, poche pennellate che però restituiscono all'orecchio un'immagine di possibilità. Tom Russell è uno di questi, uno di quelli che quando canta - proprio come accade a Billy the Kid, il personaggio di un racconto di Steve Earle - gli credi. E ti viene facile credergli, soprattutto guardando al suo universo poetico, un universo fatto di persone come il protagonista della canzone che riporto di seguito:
GALLO DEL CIELO (Tom Russell)
Carlos Saragosa left his home in Casas Grandes when the moon was full
He had no money in his pocket, just a locket of his sister framed in Gold
He headed for el Sueco, stole a rooster named Gallo Del Cielo
Then he crossed the Rio Grande with that roosted nestled deep within his arm
Galllo del Cielo was a warrior born in heaven so the legends say
His wings they had been broken, he had one eye rollin crazy in his head
He'd fought a hundred fights and the legends say that one night near El Sueco
they fought Gallo seven times, and seven times he left brave roosters dead
Hola my Teresa I'm thinkin of you now in San Antonio
I have 27 dollars and the good luck of your picture framed in gold
Tonight I'll put it all on the fighting spurs of Gallo Del Cielo
Then I'll return to buy the land Pancho Villa stole from father long ago
Outside of San Diego in the Onion fields of Paco Monte Verde
The Pride of San Diego lay sleeping on a fancy bed of silk
Adn they laughed when Saragosa pulled the one-eyed Del Cielo from beneath his shirt
But they cried when Saragosa waked away with a thousand dollar bill
Hola my Teresa I'm thinkin of you now in Santa Barbara
I have 1500 dollars and the good luck of your picture framed in gold
Tonight I'll put it all on the fighting spurs of Gallo Del Cielo
Then I'll return to buy the land Pancho Villa stole from father long ago
Now the moon has gone to hiding and the lantern light spills shadows on the fighting sand
A wicked black named Zorro faces Del Cielo in the sand
And Carlos Saragosa fears the tiny crack that runs across his roosters beak
And he fears that he has lost the 50,000 dollars riding on the fight
Hola my Teresa I'm thinkin of you now in Santa Clara
The money's on the table, I'm holding now your good luck framed in gold
Everything we dream of is riding on the spurs of Del Cielo
Then I'll return to buy the land Pancho Villa stole from father long ago
The signal it was given and the roosters rose together far above the sand
Gallo Del Cielo sunk a gaff into Zorro's shiny breast
They were separated quickly but they rose and fought each other time and time again
And the legends all agreed that Gallo Del Cielo fought the best
But then the screams of Saragosa filled the night outside the town of Santa Clara
As the beak of Del Cielo lay broken like a shell within his hand
And they say that Saragosa screamed a curse upon the bones of Pancho Villa
As Zorro rose up one more time and drove Del Cielo in the sand
Hola my Teresa I'm thinkin' of you now in San Francisco
I have no money in my pocket I no longer have your good luck framed in gold
I buried it last evening with the bones of my beloved Del Cielo
I will not return to buy the land that Villa stole from father long ago
Do the rivers still run muddy outside of my beloved Casas Grandes?
Does the scar upon my brother's face turn red when he hears mention of my name?
And do the people of El Sueco still curse the theft of Gallo Del Cielo?
Tell my family not to worry, I will not return to cause them shame.