12 aprile 2006

..E dopo maiale, Majakovskij, malfatto....

Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni venturi.
In questa vita
non è difficile morire.
Vivere
è di gran lunga più difficile.

E' sempre difficile provare a racchiudere un disco di Claudio entro poche righe, difficile a causa dei continui rimandi ad immaginari che si snodano su più piani (musicale, letterario, visuale) e, soprattutto, difficile perché i testi stessi giocano ad intrecciare quei medesimi piani, in un perpetuo spostamento dialettico tra significante e livelli metaforici più o meno immediati. E allora, proverò a procedere per spunti, buttando giù le prime impressioni dopo il concerto di Sasso Marconi e una decina di ascolti del cd.

E si comincia con un'America "scoperta" non più da un navigatore genovese di fine quattrocento, bensì da un poeta russo dei primi del secolo scorso. Ovviamente non si parla dell'America come luogo geografico, ma come luogo ideale, quella stessa america che, come dice Wim Wenders in un suo film di qualche tempo fa, ha colonizzato il nostro immaginario. E così l'america di Majakovskij non è la terra che il poeta vedrà nell'ultima parte della sua vita, bensì la chiosa della poesia dedicata ad Esenin riportata in epigrafe ("Ed il grande poeta russo Majakovskij/strappare la gioia ai giorni futuri/perché aveva già lui scoperto l'America/coi suoi occhi duri/e dire profetico: 'Amico Esenin,/morire oggi non è difficile/è mille volte più difficile/vivere, vivere, vivere male....' "). Tutto questo inquadrato in una metafora più grande che è quella del cinema, produttore di
immaginario per antonomasia nel ventesimo secolo, esattamente come ne "La fine del cinema muto", quasi che lo strappo del telone cinematografico potesse rappresentare lo squarcio di una sorta di velo di Maya che nascondesse dietro l'esteriorità del divertimento la consapevolezza del dolore del mondo ("Se sai strappare anche il cielo vedi/oltre le nubi colorate in rosso/le pianure immense del dolore che ti vive addosso/in cui cammini, sopravvissuto, /tra dei bagliori sempre più scuri/strappando bacche al terreno/ e la gioia ai giorni futuri/ perché è questo il frutto dell'America/quel paradiso dei divertimenti/in cui sono soltanto i poeti russi /a morire di stenti").
E allora, se il mondo si sviluppa in verticale, la gioia dei giorni futuri può divenire un bisogno orizzontale, non solo perché l'orizzontalità è la dimensione del riposo e, spesso, anche dell'amore (l'amore, si sa, è uno dei modi per salvarsi la vita), ma proprio perché solo in orizzontale è data la possibilità "di una piazza almeno virtuale,/ di discorsi politici, frenetici/ di uno scontro frontale".
Ma la gioia dei giorni futuri si può guadagnare pure sognando, anche se il sogno spesso dura l'istante di un battito d'ali: così la bologna guazzalochiana non è poi troppo lontana dalla nuova bologna di cofferati, bottegaia e borghese, con le spalle coperte dalla forza pubblica ("C'è della gente a Bologna che di sera va verso il
Comunale/vestita bene, con dei vestiti che assomigliano a un carnevale/che guarda dritta verso il futuro scortata dai celerini/c'è della gente a bologna che ha paura dei bambini") che ha anch'essa un suo sogno ("ma il primo sogno è il sogno di decidere e
comandare/mettere a posto i vestiti, la sveglia e andare a lavorare"), cui contrapporre un "secondo sogno,più semplice e più difficile da realizzare").
Quando i sogni si esauriscono, però, vivere può tornare ad essere difficile e bisogna cercare altrove un modo per strappare dell'altra gioia ai giorni futuri; talora quell'altrove è un altrove che uccide, dopo l'immaginario, anche la carne. "Davvero è meglio/morire di vodka,/che di noia!" scrive Majakovskij nella già citata poesia ad Esenin, e questi stessi versi potrebbero accompagnare l'ultima pedalata del campione, proprio come quelle rose che lo attendevano "dal podio del mondo alle ferite mani".
E così, a testimoniare ancora una volta che "in questa vita/ non è difficile morire" subentrano due episodi, diversi per carattere e contenuto, storie di ponti saltati per resistere agli invasori e di un paese sommerso dalla miopia dell'uomo, prima che dall'acqua.
Ma che succede quando chi cerca di strappare la gioia ai giorni futuri "ha sempre gli occhi di un altro colore"? Davanti a quegli occhi il telone del mondo diverrà lo schermo del Nuovo Carcere Paradiso, dove capire "come, in un sogno, che cos'è il dolore". Il muto è finito da un pezzo e il cinema ha il suo nuovo proiezionista: è il "dio che tutti adorano e che regala vuoti di memoria" ("E un dio vi guarda tutti dal buio del suo cielo/vi odia e vi ama tutti con estremo zelo/è il dio dell'oblio e della perplessità/ha una bevanda magica, o forse ce l'avrà/Ha precettato in massa nani e ballerine/ un esercito spietato di puttane ragazzine/ ha prenotato un incubo in DVD/giurando e spergiurando che non finisce qui./E lui verrà a cercarci con le gambe in spalla/a passo di mitraglia, con la faccia gialla/ e ci offrirà per forza con il suo sorriso/vacanze gratis nel nuovo carcere paradiso"). E allora "per queste lacrime dell'occidente/che si accontentano della vendetta/dio, che la gioia dei giorni futuri/non abbia fretta". Ma alla luce dello schermo si contrappone il buio della sala, il buio che nasconde ma anche il buio che affratella, buio che è anche negazione dell'immagine proiettata: "Ma non ci troverà, saremo già scappati/il buio è un buon amico a tutti gli sfollati/Il buio è un
buon amico in tutti i tempi bui/La storia siamo noi, la storia non è lui."